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Proteste in Serbia: perché le bandiere Ferrari diventano simbolo di ribellione?

Le recenti proteste in Serbia hanno messo in mostra alcune bandiere della Ferrari utilizzate come simbolo di ribellione: ecco il motivo.
Le proteste in Serbia hanno una matrice prevalentemente politica. La situazione attualmente in coro, ha portato a del malcontento generale nei confronti di Aleksandar Vucic, attuale presidente in carica per il Paese.
Tutto ha avuto inizio quando, nei pressi della stazione di Novi Sad, hanno perso la vita circa 16 studenti. Un evento a tutti gli effetti tragico, andando ad inasprire una situazione dove i nervi tesi la facevano già da padrona.
Ecco il ruolo della figura Ferrari
Un clima così teso non lo si vedeva probabilmente dagli inizi degli anni ’90, quando tutto il Paese attuò dei veri e propri movimenti di rivolta nei confronti dell’operato di Slobodan Milosevic. Ad oggi, più di 30 anni dopo, sembra che tutto sia tornato come un tempo.

Uno dei tratti più distintivi di ogni movimento di protesta, è legato alla sua simbologia. C’è infatti chi innalza le due dita in segno di vittoria, chi invece realizza cartelloni e li espone in pubblica piazza. In questo caso però, è accaduto qualcosa di piuttosto singolare.
Dalle varie foto apparse in rete, i più attenti non hanno potuto fare a meno di notare la presenza del logo Ferrari. Ma quale attinenza ha in una situazione del genere? Per numerosi manifestanti, questo simbolo è di forza, resistenza e perseveranza.
Tra Ferrari e proteste in Serbia
Nelle proteste dei manifestanti verificatesi nel 1996, questo simbolo comparve per la prima volta proprio durante quelle occasioni. Si tratta di un tratto che, oltre alla sua simbologia, in quei casi specifici era utile anche per distinguersi nel bel mezzo della folla.
Ad oggi ha assunto tuttavia dei connotati quasi idealistici, permettendo agli studenti e a coloro che hanno preso parte alla causa serba, di identificarsi su di esso. Il legame con la Serbia non è tale solo per il trasferimento di Stellantis, dunque.
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