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La pratica discutibile delle Case cinesi: cosa sta succedendo

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Auto elettriche “a km zero” per far fronte alla sovrapproduzione. Un trucco che coinvolge le autorità locali e mina la reputazione del settore cinese.

La Cina, che si conferma come il più grande mercato automobilistico del mondo, si trova ad affrontare un paradosso: la produzione di veicoli elettrici è talmente elevata che non tutti i modelli riescono a trovare acquirenti sul mercato interno. La risposta a questa sovrapproduzione? Esportarli. Tuttavia, c’è un dettaglio che merita attenzione: molte di queste auto, pur essendo nuove, vengono vendute come auto usate a chilometro zero, una pratica che sta creando non pochi problemi. Ma come funziona esattamente questo meccanismo?

Il trucco delle “auto usate a chilometro zero”

Per far fronte alla sovrapproduzione, alcune case automobilistiche cinesi immatricolano le auto elettriche appena uscite dalle catene di montaggio per farle risultare come vendute. Questo passaggio, normalmente destinato a veicoli che vengono effettivamente acquistati dai clienti finali, consente ai costruttori di accedere a incentivi e agevolazioni fiscali. Una volta immatricolate, le auto vengono deregistrate, classificate come veicoli usati e poi esportate verso mercati come Russia, Giordania, Asia Centrale e Medio Oriente.

In questo modo, le autorità locali registrano una vendita, i produttori incassano e gli esportatori ottengono un profitto che, secondo i dati di Reuters, è di circa 1.200 euro per veicolo. Un vero e proprio gioco di numeri che permette a tutte le parti coinvolte di guadagnare, ma con un prezzo potenzialmente elevato sul lungo periodo.

Il sostegno delle autorità locali cinesi

Quello che potrebbe sembrare un piccolo inganno, in realtà è una pratica supportata attivamente da molte amministrazioni locali cinesi. Fin dal 2019, diverse regioni hanno promosso l’export di auto elettriche usate a chilometro zero come parte di una strategia per raggiungere gli ambiziosi obiettivi economici fissati dal governo centrale di Pechino.

Secondo quanto riportato da Reuters, almeno 20 governi locali avrebbero fornito incentivi per le esportazioni, tra cui licenze straordinarie per l’export, accelerazione dei rimborsi fiscali e investimenti in infrastrutture logistiche. In città come Shenzhen, l’obiettivo di esportare 400.000 veicoli all’anno è ormai considerato una priorità per stimolare le vendite interne e alleggerire il mercato sovraffollato.

I dubbi sul fenomeno e le reazioni globali

Tuttavia, non tutti sono d’accordo con questa pratica. Alcuni produttori, come Parker Shi di Great Wall Motors, negano che esista un vero e proprio problema di sovrapproduzione, sostenendo che molte case automobilistiche costruiscano impianti con capacità superiore al fabbisogno immediato, per sfruttare le opportunità future. Al contrario, altri, come Li Shufu di Geely, parlano apertamente di un “grave eccesso di capacità” e di una guerra dei prezzi che sta minacciando la stabilità del settore.

Nel frattempo, le reazioni nei Paesi importatori non si sono fatte attendere. Russia e Giordania hanno già preso misure per limitare il fenomeno delle auto a chilometro zero, con la Russia che ha vietato l’importazione di auto di marca cinese già distribuite ufficialmente nel Paese e la Giordania che ha modificato la definizione legale di “veicolo usato” per fermare questo flusso di veicoli. Questi interventi dimostrano che la pratica potrebbe avere conseguenze negative per i mercati locali, a lungo andare.

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Una questione di reputazione e sostenibilità

Infine, c’è la questione reputazionale. Sebbene l’esportazione di auto sovvenzionate possa sembrare una soluzione conveniente per i costruttori cinesi e per i rivenditori, la domanda che si pone è: quanto aiuterà la Cina nel lungo termine? Se il Paese vuole diventare un attore legittimo nei mercati globali, pratiche come questa rischiano di minare ulteriormente una reputazione di per sè già non elevatissima, soprattutto nei Paesi in cui i consumatori sono sempre più attenti alla sostenibilità e alla trasparenza delle pratiche commerciali. La domanda che rimane, dunque, è: quanto durerà questo “trucco” prima che le autorità internazionali decidano di intervenire ulteriormente?

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